Le dimissioni per fatti concludenti: tra novità normativa e rischi applicativi
Con l’entrata in vigore della Legge n. 203 del 2024, nota come “Collegato Lavoro”, è stata introdotta una disposizione innovativa in materia di cessazione del rapporto di lavoro: la possibilità per il datore di lavoro di considerare come valide le dimissioni per fatti concludenti del lavoratore.
La norma riconosce ora che il comportamento del lavoratore, se inequivocabile e protratto nel tempo, può manifestare in modo implicito la volontà di recedere dal rapporto. In sostanza, l’assenza ingiustificata prolungata dal luogo di lavoro, accompagnata dal mancato riscontro a richiami o diffide da parte del datore, può essere interpretata come un atto dimissorio. La volontà non viene più espressa con una dichiarazione, ma si deduce dai fatti.
Sebbene questa previsione rappresenti un'importante semplificazione per i datori di lavoro, che spesso si trovano a dover gestire casi di abbandono del posto senza alcuna comunicazione, essa apre scenari delicati sul piano giuridico e probatorio. Infatti, la valutazione della condotta del lavoratore dovrà essere prudente, supportata da documentazione e coerente con i termini e le condizioni previste dai contratti collettivi applicati. Alcuni CCNL, ad esempio, stabiliscono espressamente che l’assenza ingiustificata protratta oltre 5 o 10 giorni può costituire dimissioni tacite.
La giurisprudenza, già prima dell’intervento legislativo, aveva in alcune circostanze ammesso la validità delle dimissioni implicite, ma richiedeva una valutazione rigorosa del contesto. Ora, con una norma esplicita a sostegno, si rafforza questa impostazione, ma resta fondamentale l’analisi del caso concreto per evitare contestazioni, soprattutto quando l’assenza del lavoratore può essere giustificata da cause non tempestivamente comunicate (malattia, impedimenti oggettivi, problematiche familiari).
Non va inoltre trascurata la questione della tutela previdenziale. Le dimissioni, se non per giusta causa, precludono l’accesso alla NASpI. In assenza di una comunicazione formale o di una procedura disciplinare, il lavoratore potrebbe trovarsi escluso dalla prestazione, generando potenziali contenziosi anche con l’INPS.
Dal punto di vista aziendale, sarà dunque fondamentale mantenere tracciabilità nelle comunicazioni inviate, rispettare i termini fissati dai contratti collettivi per la giustificazione delle assenze, ed evitare conclusioni affrettate in assenza di elementi certi. Una diffida a rientrare, eventualmente seguita da una formale dichiarazione di presa d’atto delle dimissioni per fatti concludenti, rappresenta la prassi più prudente.
In conclusione, le dimissioni per fatti concludenti rappresentano una novità significativa nel diritto del lavoro italiano, utile nella gestione di alcuni casi concreti ma che, per essere applicata correttamente, richiede rigore formale, chiarezza contrattuale e attenzione al contesto. Il rischio di incertezze interpretative e ricorsi resta alto, almeno fino a quando la giurisprudenza non avrà definito con maggiore precisione i contorni di questa nuova fattispecie.
Benedetta Rea
Consulente del lavoro